Come affrontare il rischio tsunami in Europa

Tra i vari rischi da affrontare in Italia c'è anche quello degli tsunami, su cui il Centro Allerta Tsunami sta lavorando anche in ambito internazionale per migliorare la valutazione del rischio, le reti di monitoraggio e la consapevolezza dei cittadini

Quando usiamo il termine tsunami, ci viene in mente qualcosa di esotico e spaventoso. In realtà uno tsunami non è niente di diverso da un maremoto, e la parola che siamo abituati a usare è solo un altro termine che indica la stessa cosa: una serie di onde che possono essere alte molti metri o pochi centimetri.

Il motivo per cui negli ultimi anni ci siamo abituati a chiamarlo tsunami è che il grosso della letteratura scientifica sul tema è in lingua inglese. Così anche in Italia abbiamo un Centro Allerta Tsunami, sezione dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv). E abbiamo anche un Sistema di Allertamento nazionale per i Maremoti generati da sisma, che ci avverte dei pericoli imminenti, e tratta gli tsunami allo stesso modo in cui vengono trattati nel resto del mondo: come un rischio concreto che può abbattersi sui nostri territori, a seguito di un terremoto, un’eruzione o una frana. Come tutti i rischi concreti, quello che riguarda gli tsunami necessita di un’attività di valutazione della pericolosità, ma anche di un’attività di monitoraggio, di diffusione della consapevolezza e della capacità di risposta.  

Sull’onda di queste certezze, si è concluso nei giorni scorsi a Parigi il meeting del Comitato direttivo del Neamtws (North East Atlantic, Mediterranean and connected seas Tsunami Warning System), l’organo dei coordinatori degli Tsunami Service Provider e dei coordinatori dei Working Group e Task Team dell’area Neam (North East Atlantic and Mediterranea, cioè l’area dell’Atlantico nord-orientale e del Mediterraneo). Nel meeting è stato presentato il nuovo documento sulla strategia che il Neamtws ha messo in campo per la difesa dal rischio tsunami dell’area euro-mediterranea fino al 2030. Il documento, redatto da Team specializzato del Neam coordinato da Alessandro Amato dell’Ingv (Italia) e Brian McConnell del Gsi (Irlanda), ha visto il contributo dei centri di allerta tsunami di Francia, Turchia, Grecia e Portogallo ed è stato pubblicato dopo oltre due anni di lavoro. La strategia ideata da NEAM si basa su tre pilastri: la valutazione della pericolosità e del rischio tsunami; il monitoraggio, l’allerta tsunami e la diffusione dei messaggi; la consapevolezza e la capacità di risposta. Ne abbiamo parlato proprio con Alessandro Amato, diretto del Centro Allerta Tsunami dell’Ingv.

Le varie tipologie di rischio
Citando il documento ricavato dal meeting di Neamtws, Alessandro Amato illustra le prospettive dei lavori futuri, come l’importanza delle implementazione probabilistiche per la valutazione dell’hazard della pericolosità e del rischio tsunami: “Andando avanti - racconta Amato - si incoraggeranno gli Stati membri a sviluppare specifici modelli di hazard per le aree più vulnerabili a livello nazionale o regionale, per approfondire in maniera più precisa”. Nei prossimi anni si studieranno più in dettaglio anche le zone critiche, quindi quelle più vulnerabili o più popolate o dove ci sono più industrie e infrastrutture, per studiare tsunami indotti non solo da terremoti ma anche da altri fenomeni, come gli tsunami generati da frane. Sul tema in questo periodo sono in corso molti studi, perché, come spiega Amato, “mentre per gli tsunami generati da terremoti c’è un catalogo molto nutrito, per le frane non possiamo dire altrettanto”. Tra le linee guida per la valutazione dei rischi dei prossimi anni, nel documento vengono citati anche gli tsunami generati da eruzioni vulcaniche e i cosiddetti meteo-tsunami. I vari Paesi e i vari centri di ricerca si stanno focalizzando nei vari ambiti. “Per esempio - racconta Amato - noi ci stiamo concentrando con alcune Università per analizzare la pericolosità tsunami a Stromboli, oppure facciamo delle analisi specifiche sul rischio dove si trovano insediamenti industriali”.  “Ma ce ne stiamo già occupando - spiega Amato - per esempio se pensiamo a quello che è successo negli ultimi anni, in Indonesia e poi a Tonga, vediamo chiaramente che anche nel Pacifico e nell’oceano Indiano si stanno ponendo il problema di come fronteggiare gli altri tipi di tsunami, che sono un po’ più difficili da monitorare”.

Infittire le reti di monitoraggio
Per quanto riguarda il monitoraggio, allerta tsunami e diffusione dei messaggi, in Italia siamo un po’ indietro. “Mancano completamente le boe Deep ocean assessment tsunami che sono presenti invece nel Pacifico e nell’Indiano”, racconta Amato. “Ora stiamo cercando di posizionarne due nel Mar Ionio con i fondi del Pnrr. E oltre a questo stiamo implementando il Probabilistic tsunami forecasting, che serve proprio a evitare e ridurre il rischio di falsi allarmi, come quello generato dal terremoto in Turchia, che a posteriori potrebbe essere stato considerato un quasi-falso allarme perché, sebbene lo tsunami ci sia stato, è stato piccolo e non è arrivato in Italia e negli altri Paesi del Mediterraneo centrale e occidentale. Ora questo sistema servirà proprio a migliorare le capacità previsionali in tempo reale in caso di terremoto”.

L’importanza della comunicazione
Non basta però monitorare il rischio, serve anche comunicarlo. E prima di comunicarlo, serve essere consapevoli che questo rischio esiste. E in Italia, sulle nostre coste, esiste. “I cittadini devono essere consapevoli di questo - afferma Amato - e poi devono anche sapere che da questo rischio ci si può difendere, almeno a livello di salvaguardia della vita umana”. A differenza del rischio sismico, che ha tutta un’altra problematica per la sua difesa, in questo caso è importante sapere almeno come comportarsi, avere a disposizione un piano di protezione civile ben fatto, con la segnaletica giusta su dove andare in caso di allerta, e riconoscere i segnali naturali che preannunciano un possibile tsunami, come il ritiro del mare, il rumore di un rombo in lontananza o l'apparizione di una specie di cresta allungata all’orizzonte, che è il punto dove l’onda comincia a rompersi. “Queste conoscenze aiutano a salvare le vite”, afferma Amato, ricordando il celebre caso di Tilly Smith, la bambina inglese che era in vacanza con la famiglia durante lo spaventoso tsunami del 2004 nel sud-est asiatico. Smith aveva da poco studiato a scuola le caratteristiche degli tsunami e in quel caso seppe riconoscere i giusti segnali, riuscendo a salvare la vita della propria famiglia e delle persone che erano con lei. La consapevolezza salva la vita.

Il certificato “Tsunami ready”
“Un altro obiettivo dell’awarness response è Tsunami ready, un’iniziativa Unesco che abbiamo portato nell’area mediterranea e che stiamo provando in alcuni comuni costieri italiani: a Palmi (Calabria), Minturno (Lazio) e Marzamemi (Sicilia)”, racconta Amato. E probabilmente il prossimo comune ad aderire sarà Otranto in Puglia. Il programma prevede il coinvolgimento di tutta la comunità costiera per la riduzione del rischio, dal sindaco ai volontari, dalla protezione civile alle associazioni del turismo locale. Una volta stilato un piano adeguato, il comune in questione potrà fregiarsi del riconoscimento Tsunami ready, che l’Unesco darà al comune che avrà soddisfatto una serie di parametri. “È già qualche anno che queste comunità ci stanno lavorando”, spiega Amato. In questi casi non significa che lo tsunami non farà sicuramente danni o vittime, perché la certezza assoluta non è raggiungibile, ma che è stato fatto tutto il possibile per mettere a disposizione le informazioni necessarie, attraverso l’installazione di cartelli e aree d’attesa, stilando piani di protezione civile e mappando le aree di rischio.

Giovanni Peparello