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Alternanza tra piene e siccità. Una triste eco del presente

Lungo il sesto secolo dopo Cristo le calamità che si alternano sulle sponde del Po e nell'Insubria sono soprattutto siccità e alluvioni, fino a quando a metà del secolo non compare anche il dramma della peste

Eccoci di nuovo con una veloce carrellata sugli eventi calamitosi avvenuti nel nord del nostro Paese. Riprendiamo dal VI secolo d. C.

Abbiamo lasciato l’anno 500 d.C. in cui si ricordava una piena catastrofica nel medio e basso bacino del Po e riprendiamo con una notizia che ci riporta alla crisi appena sopita dai gravi eventi che hanno colpito nei giorni passati la Romagna e i territori adiacenti.

Nel 516 d.C., scrive nel 1676 Donato Calvi, letterato e religioso bergamasco, una grave siccità interessò tutta l’Insubria, cioè il territorio compreso grossomodo tra le Alpi e il settore pedemontano della Lombardia.

“Da questo mese sin a quello di settembre (l’Autore scrive nelle sue Effemeridi il 31 gennaio), mai cadè goccia d’acqua dal cielo. Asciutti li fonti, aride le cisterne, vuoti li pozzi, senz’acqua li fiumi, sperimentò la patria con tutta l’Insubria nove mesi di infelicità. A si prodigiosa siccità s’accoppiò rabbiosa penuria, che diffusa per tutta l’Italia, levò dal mondo innumerevoli persone.”

Gli effetti di questi eventi su un'economia di sussistenza locale con ridotti scambi locali di beni furonoi tremendi sulla vita delle persone. Agli eventi calamitosi di carattere naturale, succedevano mesi, a volte anni, di carestia e di malattie.

Passarono pochi anni e nel 520 d.C. nel mese di settembre incominciò a piovere e proseguì a dirotto per almeno venti giorni. I fiumi di Italia e Francia – secondo De Morani che ci ha lasciato alla fine del 1700 una cronaca manoscritta sugli avvenimenti di Casale Monferrato – uscirono dai loro letti e fecero gravi danni. Notizia ripresa da alcuni altri cronachisti che parlano di “strage di uomini ed animali”.

Riporto la narrazione che ne fa ancora Calvi: “Entrò hoggi l'anno nuovo con l’arrabiata carestia, e estrema penuria, che gl'habitatori de monti, con solo pane di castagne, e mille immonditie cibandosi, contrassero indi mortalissime infermità. Si venne a termine, che nella Valle Decia o di Scalve mangiò una Madre il proprio figlio, come pur successe in altre parti d'Italia. Il mangiarsi l’un l'altro era fatto consueto, e narrasi che due donne albergatrici mangiassero in diversi tempi decisette huomini, benché in fine vi lasciassero pur esse miseramente la vita. Le radici d'erbe, eran à poveri pregiatissimi cibi; più non v’eran gatti, cani, o simili animali, che tutti eran stati dalla fame divorati. Durò il gran flagello due anni, che nella nostra patria mandò per terra le migliaia di persone” riprendendo un antico manoscritto da lui consultato.

Che si voglia credere oppure no ai macabri dettagli, le sofferenze dovevano essere tremende.

Arriviamo al 563 d.C., anno nel quale, secondo Jacopo Durandi, storico e letterato piemontese della seconda metà del 1700, “mons validus Tauretunensis in territorio Vallensi ita subito ruit, ut castrum, cui vicinus erat, et vicos cum omnibus ibidem habitantibus oppresserit.” (Il fiume esondò, fece rigonfiare il Lago Lemano e face danni in tutto il Vallese sino alla città di Ginevra).

Il 565 d.C. e gli anni successivi devono essere ricordati per una grave epidemia di peste in nord Italia. Migliaia furono le vittime. Riporto una descrizione fatta da Luigi Tatti da Como, storico della seconda metà del 1600: “Horrendi prodigi raccapricciarono i nostri popoli, poiché all'improvviso si scoprirono dentro le case, e sopra le porte, sopra i vasi, e sopra le vestimenta alcuni segni, i quali quanto più si lavavano, tanto più comparivano, né mai si poterono cancellare. Erano questi i presagi della pestilenza, che dolorosa poi si fe sentire l'anno prossimo 565 con indicibile mortalità degli habitanti. Terminato era l'anno dal principio di questi horrori, quando cominciarono a nascere nell'anguinaia, e in altre parti più dilicate certe ghiande a guisa d'una noce e d'un dattero: alle quali seguitano incontanente gagliardissime febbri con un caldo incomportabile di maniera che in tre giorni atterravano le persone, che da loro assalite languivano. Niuno poteva sperare di sopravvivere, se non passava il terzo dì. Per ogni luogo regnava il pianto, e la compassione. Tutti fuggivano a gara sì strana disavventura, lasciando le proprie case abbandonate, e solo raccomandate alla custodia dei cani. Le greggie si vedevano senza pastori andar raminghe ne' pascoli. Le Ville e i Castelli poco prima ripieni di popolo, da un giorno all'altro spogliati de' suoi paesani, erano condannati ad un rigoroso silentio. I figli s'involavano da padri, restando i di loro cadaveri insepolti: i padri scordati d'ogni pietà si toglievano da figli agonizzanti. Se alcuno per sorte mosso da tenerezza voleva metter sotterra i suoi congiunti, egli rimaneva senza sepoltura: e mentre ad altri serviva, egli restava senza servitù: mentre pensava di far un atto d'ossequio a defunti, egli senz'ossequio cadeva à loro piedi defunto. Pareva, che fosse ridotto il mondo all'antico silentio: non s'udiva altra voce, che di persone piangenti la morte de' suoi amici: non si sentiva alcun fischio nelle campagne, non era teso agguato agli agnelli dalle fiere più crude, niun laccio dagli huomini agli uccelli più dimestici. Le biade, passato il tempo della ricolta aspettavano la falce del mietitore.”

Tremenda descrizione probabilmente non priva di eccessi che però ci fa riflettere sulle condizioni delle persone in quei tempi.

Nel 570 d.C. vi fu un'importante piena del medio e basso Po. Carlo Sigonio, storico modenese vissuto nel 1500 così racconta: “V'erano vaste paludi nella campagna Cremonese, sgorgate dai fiumi Olio, Serio e Adda, straripanti da uno stretto canale, e pure inframmezzate da molte ma incolte isole, le quali, superando le altre per grandezza, erano il rifugio dei popoli vicini, il che fece evitare il maggior pericolo, poiché si erano portati in luogo sicuro con i loro averi, tutti allontanati dall'altra riva in barche, di cui avevano deciso di stabilirvi stabili residenze, XVII kal. Settembre”, che è il giorno dell'Assunzione della Madre di Dio (trad. dal latino).

Interessante la notazione circa le grandissime porzioni paludose della Pianura Padana, non solo nella zona del delta.

Altri eventi di piena del Po vengono da vari autori riportati negli anni 579 d.C, nel 583 d.C, soprattutto dell’Adige con gravi danni a Verona che vide distrutte le sue mura e nel 584 d.C. anno in cui il Po ed i suoi affluenti portarono distruzione nel territorio piacentino. In quest’anno ancora De Morani, riporta come piogge continue per 6 mesi provocarono gravissimi danni alle città padane sino al delta. Il paese di Velleja, insediamento romano dalle rinomate acque termali sito nell’Appennino piacentino fu distrutto e abbandonato.

Poche le informazioni sui fiumi minori, ma in quest’anno abbiamo una notizia relativa al Torrente Garza nel Bresciano. Così ne parla Helia Cavriolo, storico della seconda del 1500 nelle sue “Delle Historie Bresciane”: “In questo tempo furono si spesse e si gran pioggie, che tal’hora i nemici dalla forza di esse furono ributtati dalle mura (di Brescia). La Garza nostra torrente uscendo con grave inondatione dalle più alte rive del suo letto, parea rinovare a nostri Cittadini, non senza gran cordoglio e molestia loro il diluvio di Noè. Et furono nel seguente Novembre tanti lampi, e tuoni, quasi era consueto di essere nel tempo di estate.”

P.S: non può mancare un caloroso abbraccio alle persone che sono state colpite dai recenti avvenimenti in Romagna e dintorni. Forza e coraggio.

Furio Dutto

Bio

Geologo alpino, Furio Dutto ha lavorato al Consiglio Nazionale delle Ricerche presso l’Istituto per la protezione idrogeologica del bacino del Po occupandosi di eventi estremi (frane, alluvioni, piene torrentizie, rischi glaciali) e di cambiamenti climatici. Dopo un breve impegno al Dipartimento dei Servizi Tecnici presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha seguito presso l’Autorità di Bacino del fiume Po i lavori del Piano Fasce (PFF) e del Piano per l’assetto idrogeologico (PAI). Successivamente ha diretto la Protezione Civile in Provincia di Torino. Raggiunti i limiti di età per la cessazione dell’attività lavorativa, attualmente è collaboratore associato senior del CNR IRPI di Perugia. Nella sua attività ha partecipato a numerosi progetti europei legati ai rischi ed al miglioramento della resilienza delle comunità. Per ulteriori informazioni o domande inviare una mail a: furio.dutto@gmail.com