Immagine di repertorio (Fonte foto: Pxhere)

Mare Nostro tropicale

Tra specie aliene e innalzamento della temperatura, il Mediterraneo sta cambiando radicalmente. Quattro pescatori ci raccontano dall'interno questi stravolgimenti

Al Mediterraneo sta venendo la febbre, come durante un'infezione. Con un tasso di riscaldamento circa tre volte più veloce di quello dell’oceano, è proprio il Mare Nostro a mostrare i segni più evidenti della crisi climatica: al suo interno il Mediterraneo ospita circa il 10% delle specie conosciute, con una ricchezza biologica per area 10 volte superiore alla media mondiale. Questa ricchezza sconfinata arriva anche sulle nostre tavole, nutrendo un mercato del lavoro particolarmente ramificato. Ma ora, con la febbre che alza le temperature dei nostri mari, il Mare Nostro si sta trasformando lentamente e profondamente.

Un mondo a misura degli alieni
Mentre la temperatura del Mediterraneo si alza, per resistere all’infezione interi habitat marini si trasformano. Nelle nuove condizioni ambientali, alcune specie sono svantaggiate, mentre altre scoprono nuovi vantaggi, innescando massicci moti migratori da mari più caldi. E questa febbre infettiva non è causata solo da inquinamento e innalzamento della temperatura, come possiamo immaginare, ma anche dalle stesse migrazioni di specie aliene non autoctone, che contribuiscono a trasformare i delicatissimi habitat. Come in un circolo vizioso, quando nel Mediterraneo entra una specie aliena, innesca una serie di effetti a cascata che portano all’alterazione di equilibri ecologici già precari. Così le nuove specie deteriorano gli habitat naturali in cui si stabilizzano, entrando in competizione con le specie autoctone, impattando sulla rete alimentare marina e rischiando di ridurre drasticamente la biodiversità locale. Negli ultimi 130 anni nel Mediterraneo sono giunte circa 200 specie di animali tipiche dei bacini tropicali. Molte di queste provengono dal Mar Rosso e attraversano il canale di Suez, ma altre arrivano con le navi per mezzo dell’importazione. Alcune si spostano soprattutto verso nord e ovest, dove l’aumento della temperatura media dell’acqua ne favorisce la sopravvivenza. E gli effetti possono essere devastanti. Come spiega Simone Libralato dell’Ogs, “L’aumento del pesce serra nel Mar Mediterraneo, una specie carnivora molto vorace, modifica i sistemi ecologici marini, perché soppianta specie locali come il branzino”. Allo stesso modo, il granchio blu nella laguna veneta e nel Delta del Po alla lunga soppianterà il granchio locale. E alcune di queste specie sono pericolose per l’uomo, come nel caso del pesce istrice, non commestibile, avvistato di recente sulle coste laziali. E per ogni nuova specie che arriva, altre verranno a mancare: è il caso dello scampo, importantissimo sia per l’ecosistema che per l’economia della pesca, che troverà sempre meno spazio nel Mare Adriatico. 


(Pescato di scampi, foto di Antonino Camplone)

Pesce mangia pesce
I cambiamenti nel mare non vengono portati solo dalle nuove specie ma anche da scelte umane. Così raccontano i pescatori abruzzesi della nave Indomita, che lavorano con la pesca a strascico, poggiando sul fondo del mare una rete chiamata tartana. Antonino Camplone, armatore di Pescara, che lavora con un pescato di tipo stanziale racconta che: d’inverno si trova più al largo, d’estate maggiormente sotto costa. Sulla fascia costiera sono più presenti mazzancolle, pannocchie, crostacei, triglie e calamari, mentre più al largo, in base alle condizioni meteo, si possono trovare più merluzzi, totani, scampi e gamberi rosa. Questo tipo di pescato variegato risente delle mutazioni di temperatura, sia stagionali che dovute al cambiamento climatico. “Pesce mangia pesce – spiega Camplone – quindi se nella catena alimentare c'è qualcosa che viene a mancare, ci sono delle specie che possono predominare”. Il pesce che Camplone pescava da ragazzo è più o meno lo stesso di quello che pesca ora, anche se sono cambiati i rapporti di quantità. “Per esempio la mazzancolla - racconta Camplone - al tempo era oggetto di una pesca casuale, di secondo o terzo ordine, mentre oggi è diventata una specie bersaglio”. A volte, durante un anno, alcune specie di pesci mancano quasi del tutto. E per recuperarle non si può far niente, salvo forse istituire delle aree di riserva per farle riprodurre. In questo quadro entrano poi in gioco i fermi biologici imposti per impedire la pesca selvaggia, per cui le barche restano in porto nel mese di agosto, proprio nel periodo in cui c’è turismo sulle coste abruzzesi e l’attività di ristorazione fiorisce. I pescatori perdono così un grande mercato potenziale - un mercato che comunque esiste e si rivolge ai grossisti che importano pesce a prezzo più caro. Ma i fermi biologici causano anche la proliferazione incontrollata di alcune specie marine, come nel caso dei naselli o dei tonni che si trovano in gran quantità. Per il nasello le conseguenze sono puramente economiche e riguardano solo i pescatori, perché il nasello non è un pesce ambito e viene commercializzato con difficoltà anche quando affolla le reti. La proliferazione del tonno è invece dovuta alla campagna di protezione istituita per salvare la specie dalla pesca selvaggia degli anni ‘90, ma che adesso sta avendo delle conseguenze pesanti sull’ecosistema. Questa specie Camplone la definisce “il cinghiale dei mari”, perché proprio come i cinghiali in esubero prolifera a scapito di altre specie viventi.


(Un tonno di 440kg, foto di Riccardo Lodato - su Instagram come ilprofilodelmarinaio)

Tonni e sbarre di ferro

Intorno a Marsala il mare è limpido e profondo. Dalle sue sponde si può arrivare a pescare fino a Favignana o a Pantelleria. In quelle acque brulicano i tonni, grandi migratori, che a volte guizzano sotto la superficie come se fossero i muscoli stessi del mare, e che ogni anno partono dal Golfo del Messico e attraversano l’Oceano Atlantico per arrivare nel Mediterraneo. Una volta i tonni si pescavano in gran quantità, con pochissime regole, finché a causa della caccia selvaggia è stato istituito un sistema di regolamentazione molto severo. “La quota di pesca oggi la gestisce l’Iccat”, racconta Uccio Tramati, pescatore di esperienza pluridecennale, che a Marsala è un’autorità. L’Iccat è un organismo internazionale che protegge il tonno dal Mediterraneo all’Atlantico e che ogni anno fornisce una quota di pesca alla Comunità Europea, quota che poi viene distribuita agli Stati membri. Di volta in volta, la quota che spetta all’Italia viene gestita in autonomia. Un pescatore non può pescare quanto vuole, ma deve sottostare alle regole dell’Iccat, seguendo quote variabili a seconda del proprio sistema di pesca. Tramati per esempio utilizza un sistema che si chiama palangaro, che è una lenza lunghissima come una corda, che arriva fino a 50 km. La lenza si fila in mare, mentre alcuni ami rimangono agganciati al monofilo con intervalli di 50 o 60 metri. “Con mio padre, mio nonno e i miei fratelli abbiamo pescato da decenni fin sotto la Grecia con vari sistemi di pesca - spiega Tramati - ma oggi io pesco solo con il palangaro, che è il sistema con il minor impatto ambientale”, perché può essere filato a varie profondità, a seconda della specie che si vuole pescare, riducendo il rischio di tirare su pesci alieni o indesiderati. Anche Riccardo Lodato, giovane pescatore marsalese, utilizza il palangaro. Lodato ha intrapreso questo mestiere da pochi anni, seguendo il lavoro del padre e la sua passione di ragazzo. E la passione via via è diventata un mestiere complicato, come racconta: “Il tonno nel periodo estivo è davvero tantissimo, ma noi che a maggio riceviamo la quota di pesca, la finiamo già prima di luglio”: nemmeno due mesi per esaurire le tonnellate messe a disposizione dall’Iccat. “La quota in seguito ce la ridanno soltanto il primo di gennaio - spiega Lodato - e per questo di solito conserviamo una tonnellata e mezzo per pescare a settembre-ottobre”. Secondo Lodato, le quote di pesca disponibili per il sistema del palangaro non aumentano da qualche anno, costringendo chi lavora alla fame. Per Lodato e Tramati è tutta una questione politica, perché - come racconta il pescatore decano - “le regole sono applicate in maniera scombinata, attraverso imparzialità visibilissime”. E alla fine vince chi ha maggior peso politico. In questo modo chi pesca con il palangaro, nonostante la grande quantità di risorse disponibili, vive una crisi perenne. Alcuni per sopravvivere sono quasi “obbligati all’illegalità” - per dirla con le parole di Uccio Tramati. “Allora, durante l’estate, se vai per le strade del porto, trovi ammucchiati ai muri i banchetti di pesce che vendono il tonno in nero, a pochi euro”. E questo sistema economico alla fine è un disastro per tutti.


(Il palangaro, foto di Riccardo Lodato - su Instagram come Ilprofilodelmarinaio)

Quello che avviene nel mare

Riccardo Lodato con lo stesso metodo del palangaro pesca anche il pesce spada, filando la lenza a diverse profondità con esche diverse. “Per pescarlo siamo costretti a spostarci nelle acqua più profonde - racconta Lodato - e dobbiamo utilizzare dei pesi per mandare il palangaro ancora più a fondo, impegnandoci in un lavoro massacrante e pericoloso, perché il filo madre rischia di sbatterti addosso come una sbarra di ferro”. Quest’anno però nemmeno la scelta di andare in profondità ha portato frutti: non si trovano i pesci spada. E Lodato è preoccupato, perché questa assenza può significare solo due cose: o il pesce spada si è spostato altrove, oppure ne è rimasto rimasto pochissimo. La colpa, secondo Lodato, potrebbe essere della crisi climatica, ma è difficile dirlo con certezza. Perché, anche se il mare è mediamente più caldo, e anche se il pescato è sempre minore (tonni esclusi), a volte per molti pescatori è quasi inutile indagare le cause. Perché, a differenza di quanto avviene per allevamento o agricoltura, i pescatori hanno a che fare quasi esclusivamente con animali selvatici - che migrano e mangiano e vivono per conto proprio - e non possono esercitare alcun tipio di controllo su di essi. Se per agricoltura e allevamento i pericoli peggiori sono gli eventi estremi, per i pescatori a questa imprevedibilità climatica si aggiunge l’imprevedibilità caratteristica di ciò che consideriamo naturale e selvaggio. Così, anche quando il pesce spada non si trova, anche quando i naselli sono troppi, per un pescatore può essere difficile capire il motivo. Altre volte invece l’impatto della crisi climatica è talmente violento che è impossibile non vederlo.


(Pescato di cozze, foto di Alan Barberini) 

Coltivare le cozze nell’acqua bollente
Alan Barberini ha una società di raccolta delle cozze selvagge di Ravenna che si chiama Ulisse, e le raccoglie a bordo di una barca che si chiama Moby Dick. Le cozze si attaccano ai piloni delle piattaforme di Eni: ogni anno i pescatori di Ulisse riescono a ricavarne circa 15 quintali per ognuna delle loro 8 barche. La raccolta avviene nella stagione primaverile-estiva, da aprile fino a settembre, perché la cozza selvaggia di Ravenna non è allevata e cresce spontaneamente nel rispetto del ciclo di riproduzione. “Negli ultimi anni abbiamo avuto un peggioramento abbastanza netto”, racconta però Barberini. “Siamo gli unici in Italia a raccogliere le cozze dalle piattaforme, per cui non abbiamo a disposizione uno studio, ma tra noi pensiamo che sia cambiato l'afflusso di acque dolci che vanno verso il mare, perché le cozze si nutrono dei microorganismi che si trovano nell'acqua dolce”, spiega. Il motivo non è chiaro: c'è chi dice che l'acqua ora contenga meno fitofarmaci, c’è chi dice che ne contenga di più. Quattro o cinque anni fa, di punto in bianco nell'arco di tre giorni sono morte tutte le cozze dalla superficie dell'acqua fino a 3 metri e mezzo di profondità in un'area vasta, sia nelle piattaforme che nelle dighe, e finora nessuno sa perché sia successo. “E poi c’è la questione del riscaldamento dell'acqua - racconta Barberini - un aspetto che notiamo sempre, essendo tutti subacquei”. Oltrettutto negli ultimi dieci anni si ripete un fenomeno strano: a luglio tutte le cozze che i pescatori non riescono a raccogliere vengono quasi completamente perse, perché arriva sempre una mareggiata talmente forte che porta via tutto”. In queste occasioni cadono centinaia di tonnellate di prodotto non raccolto, distaccandosi da quelle piattaforme alte come palazzi. Precipitando sul fondo, le cozze muoiono e non sono più utilizzabili. Ma in generale tutte le specie che vivono vicino alle coste hanno vita difficile. In questo periodo la siccità del nord sta colpendo le vongole, le ostriche e le cozze nel Delta del Po, che soffrono per la mancanza di acqua salmastre che ne inibisce la crescita. A Goro i pescatori registrano già una microproliferazione algale fuori stagione, mentre anche le orate di allevamento delle zone lagunari non vivono bene a causa di questa prolungata assenza di piogge. L'Adriatico è un bacino piccolo, il cui ecosistema risente enormemente delle variazioni di apporto di nutrienti e di acqua dolce che arriva dal grande fiume.



Misurare la febbre del Mediterraneo
Tutto quello cui stiamo assistendo è frutto di una serie di meccanismi concatenati che minano la stabilità degli ecosistemi marini, già indeboliti da inquinamento, urbanizzazione costiera, traffico marittimo e pesca. Ciò che sta succedendo sotto la superficie marina rimane però invisibile, e ciò che vediamo nelle reti dei pescatori sono solo le tracce di uno sconvolgimento profondo - come se raccogliessimo i resti di una battaglia lontana. E studiando questi resti, il progetto Enea ClimateFish ha chiesto aiuto ai pescatori per un censimento marino, con l’obiettivo cercare di capire meglio come vive e come respira questo grande organismo che chiamiamo Mar Mediterraneo. Attraverso lo studio di pesci sentinella, cioè quei pesci che utilizziamo come indicatori per determinati habitat, possiamo comprendere in che direzione sta andando il Mare Nostro, per immaginare il futuro della pesca e dei pescatori, ma anche del pescato, dell’ambiente e degli ecosistemi. Sta cambiando qualcosa, questo è certo: presto lo vedremo nettamente nella variazione delle nostre abitudini alimentari, come ora lo vediamo nelle reti cariche di specie aliene. Ma quel qualcosa che sta cambiando è già più profondo e più rigido dei menù dei ristoranti costieri. È il mare stesso, il nostro ambiente - il mare che bagna le nostre città, e che ora come un grande animale ammalato si sta trasformando in qualcosa di alieno che non abbiamo mai visto.

Con la pesca prosegue la nostra serie di articoli sugli effetti della crisi climatica sulle attività umane.

Leggi i capitoli precedenti:


Giovanni Peparello

Con la collaborazione di Claudia Balbi, Fabio Ferrante e Margherita Venturi