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Mare Nostro tropicale - Intervista a Simone Libralato di Ogs

Non solo più caldo, ma anche più acido e presto con meno ossigeno, il ricercatore Ogs Simone Libralato ci spiega come sta cambiando il mare e chi lo abita

La regione Mediterranea è una delle zone più colpite al mondo dal cambiamento climatico. Questo è ciò che è emerso dall’ultimo rapporto Ipcc pubblicato la scorsa primavera, i cui dati allarmanti riportano un aumento delle temperature maggiore rispetto alla media globale, per quel che riguarda sia l’ambiente terrestre sia quello marino. 

Mare caldo
Con un tasso di riscaldamento circa tre volte più veloce di quello dell’oceano, è proprio l’ambiente marino mediterraneo a mostrare i segni più evidenti della crisi climatica. Ciò che rende questo andamento così preoccupante è che il mar Mediterraneo, pur costituendo meno dell’1% della superficie globale dell’oceano, ospita al suo interno circa il 10% delle specie conosciute, con una ricchezza biologica per area di circa 10 volte superiore alla media mondiale. “Quello che stiamo già osservando è che l’aumento della temperatura di mari e oceani modifica gli areali di distribuzione delle specie marine - spiega Simone Libralato, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica sperimentale (Ogs) -  Quelle che possono muoversi si espandono e trovano un nuovo ambito con condizioni più favorevoli. Per esempio le specie tropicali si stanno spostando verso nord”.

Mancanza di ossigeno
Ma non si tratta solo di temperature, la crisi climatica innesca una serie di meccanismi concatenati che vanno a minare la stabilità degli ecosistemi marini, già indeboliti da inquinamento, urbanizzazione costiera, traffico marittimo e pesca. Gli oceani infatti, oltre ad assorbire calore, assorbono anche l’anidride carbonica che si trova nell’atmosfera: la CO2 combinata con l'acqua salata genera acido carbonico che determina l’acidificazione dei mari. “Con la crisi climatica cambiano anche le circolazioni oceaniche, con effetti sull’ossigenazione dei fondali marini e sulla riproduzione, e la componente planctonica, con conseguenze sul rapporto di predazione tra gli organismi marini” aggiunge Libralato. Un ulteriore esito riguarda lo scioglimento dei gas in acqua, per cui l’ossigeno nel mare sarà via via a concentrazioni sempre più basse, mentre l’aumento della temperatura marina accelera il metabolismo degli organismi e ne aumenta la richiesta. Tale progressiva deossigenazione del mare avrà in futuro conseguenze critiche per le specie ittiche e contribuirà a rendere alcune zone inadatte alla vita marina.

Migrazioni e specie aliene
La crisi climatica sta cambiando profondamente il Mar Mediterraneo trasformando gli habitat marini esistenti e creandone di nuovi. Alcune specie saranno svantaggiate dalle nuove condizioni ambientali e altre risulteranno invece favorite, innescando così massicci moti migratori. “Nel nord del mar Adriatico si trova il pesce serra, non molto comune fino a pochi anni fa e ora frequentissimo - racconta Libralato - Ci sono poi altre specie che scappano verso nord diventando così sempre più rare fino a scomparire lentamente. Per esempio nelle nostre analisi abbiamo visto che lo scampo, una specie importante per l’economia della pesca, troverà sempre meno spazio adeguato alle sue richieste fisiologiche nell’Adriatico”. 

Specie tropicali
Le migrazioni non coinvolgono unicamente specie interne al bacino del Mediterraneo, ma anche e soprattutto specie provenienti da altri mari, caratterizzati da condizioni climatiche differenti. Negli ultimi 130 anni nel Mediterraneo sono giunte circa 200 specie animali tipiche dei bacini tropicali che lo hanno reso il mare più invaso al mondo. In gran parte provengono dal Mar Rosso, attraverso il canale di Suez, ma possono arrivare anche dalle navi o per mezzo dell’importazione; si spostano soprattutto verso nord e ovest, dove l’aumento della temperatura media dell’acqua ne favorisce la sopravvivenza.

Competizione e deterioramento
L’ingresso nel Mediterraneo di specie aliene innesca una serie di effetti a cascata che portano a un’alterazione di equilibri ecologici già precari. Le nuove specie, infatti, deteriorano gli habitat naturali in cui si stabilizzano ed entrano in competizione con le specie autoctone, impattando sulla rete alimentare marina con il rischio di ridurre drasticamente la biodiversità locale. “L’aumento del pesce serra, una specie carnivora molto vorace, modifica i sistemi ecologici marini, perché soppianta specie locali come il branzino; parimenti il granchio blu nella laguna veneta e nel delta del Po soppianterà il granchio locale”.

Migrazioni sotto il mare
I movimenti migratori sono sempre più rapidi e gli effetti possono vedersi già nell’arco dei 10 anni, talvolta anche meno. Le specie di pesci non autoctoni di origine tropicale erano 90 nel 2002, di cui 59 provenienti dal Mar Rosso, mentre nel 2020 sono arrivate a 188, delle quali 106 giunte attraverso il canale di Suez, per un totale di 76 specie stabili. “L’esempio più eclatante è il Lionfish, o pesce scorpione - aggiunge Libralato - le prime osservazioni in Libano e sulle coste di Israele risalgono all’inizio degli anni 90, poi è stato avvistato nel mar Egeo nel 2020, e nel 2021 ha già raggiunto Puglia e Sicilia”.

Strumenti di monitoraggio
Il fenomeno di migrazione dei pesci è talmente diffuso ed evidente da essere oggi studiato per monitorare gli effetti del cambiamento climatico nel mar Mediterraneo. L’istituto per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie Marine del Cnr in collaborazione con il Centro Ricerche ENEA di Santa Teresa (La Spezia) e ad altri istituti internazionali ha realizzato ClimateFish  un database open access che raccoglie i dati sulla presenza nel Mar Mediterraneo di 15 specie di pesci, 7 autoctone e 8 tropicali, considerate come “sentinella” del cambiamento climatico. 

Scenari futuri
La trasformazione dell’ambiente marino mediterraneo è rapida e inesorabile, con effetti critici sulle risorse ittiche e di conseguenza sull'attività umana. Per provare a comprendere quanto grave sarà la situazione in futuro, il team di ricerca di Simone Libralato ha utilizzato le proiezioni dell’ultimo rapporto Ipcc sull’aumento della temperatura del Mediterraneo per stimare, attraverso l’applicazione di modelli numerici di previsione, quanto potrebbe essere il calo della fauna marina se tali proiezioni si avverassero. “Lo scenario che ne è uscito è molto preoccupante: si potrebbe arrivare a una diminuzione delle risorse marine anche del 10%, un valore molto importante perché le pratiche di gestione che abbiamo a disposizione al momento hanno un effetto decisamente minore, anche le più consistenti possono arrivare al massimo a compensare un 5%. Ciò significa che nonostante i nostri sistemi di adattamento, seppur efficaci, il cambiamento climatico metterà a dura prova le risorse marine”.

Adattamento
Diventa dunque vitale e prioritario mettere in atto da subito tutte le forme di adattamento e gestione che abbiamo a disposizione, a partire dalla ricerca, per comprendere meglio il cambiamento e fare previsioni sempre più accurate, fino al coinvolgimento dei pescatori nella regolazione delle specie invasive. Le correnti migratorie verso nord e ovest del Mediterraneo portano specie aliene in nuovi ambienti in cui hanno meno predatori, per cui attraversano uno sviluppo accelerato che altera tutta la catena alimentare locale. La pesca può rappresentare quindi uno strumento utile a rallentare l’invasione, in cambio di un nuovo canale di sfruttamento che si può tradurre in ritorno economico per i pescatori. Per questo motivo anche da parte del gruppo di ricerca di Simone Libralato “c’è l’idea in via di sviluppo di utilizzare parte dei finanziamenti del Pnrr per mettere insieme la conoscenza delle specie invasive e lo sfruttamento della pesca come metodo di gestione”.

Il ruolo della pesca
L’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale integra infatti le proprie ricerche con le informazioni di mercato che riceve dalle cooperative di pesca e dai produttori: “Per esempio sappiamo che nel mercato di Chioggia è aumentata la quantità di pesce serra e di altre forme di gamberi, come le mazancolle che troviamo in abbondanza per le condizioni particolarmente favorevoli”. In quest’ottica diventa determinante la cooperazione non solo tra istituzioni politiche ed enti di ricerca internazionali, ma anche con le comunità locali e in particolare con il settore della pesca e i pescatori, che si rivelano essere una risorsa preziosa per la gestione degli effetti della crisi climatica, in una prospettiva di aiuto reciproco.

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Fonti:

 

Margherita Venturi