(Fonte foto: Pixabay)

Pascoli a perdere

Sei allevatori ci raccontano cosa significa fare questo mestiere oggi in Italia. Preparandosi per un futuro sempre più difficile

La scorsa estate è stata talmente torrida che i campi di giugno sembravano gli stessi di agosto. Le pecore si buttavano ansimanti sotto l'ombra delle querce. Le vacche non potevano uscire all’aperto; chiuse dentro le stalle ventilate, ruminavano i trinciati che sarebbero dovuti essere la loro scorta invernale. Gli allevatori, portando le vacche al pascolo, o riportandole verso le stalle, stavano con il naso all’insù, a guardare il cielo, e dicevano: “Magari poteva piovere un poco di più, poteva fare un po’ meno sole”. Sul tempo meteorologico però un allevatore non ha voce in capitolo. La questione è semplice: ci sono cose al mondo che puoi riuscire a cambiare, e cose al mondo che non puoi riuscire a cambiare. La differenza tra le due cose è una sola. E si chiama fortuna. 

La fortuna a volte può essere un buon alpeggio, un alpeggio alto, che abbia ancora dei ghiacciai attorno. Se non c’è l’alpeggio, la fortuna può essere il fieno del campo, che non ti fa spendere i soldi in trinciati. Se ti tocca spendere soldi in trinciati, puoi essere comunque abbastanza fortunato da rientrare nei parametri di un’assicurazione o di un bando regionale. La fortuna dipende da dove nasci, da quando nasci, da dove vivi. In linea generale, come regola, siamo tutti concordi nel dire che la fortuna non dipende da te.


Comincia tutto dal lavoro
La vita di Porta dei parchi, azienda di Anversa degli Abruzzi, ha inizio con una storia di duro lavoro: “L’azienda nasce nel 1977, come scommessa per creare posti di lavoro in questa montagna - racconta Manuela Cozzi, la direttrice - che già cinquant'anni fa si andava decisamente spopolando”. L’azienda oggi è anche un bioagriturismo, possiede 1.162 ettari di terreno, prevalentemente pascolo, con aggiunta di orto, piante da frutto, olive e tutto quello che serve soprattutto per la ristorazione. L’allevamento conta 2.000 animali (circa 1.450 ovini, 400 caprini, maiali e galline) che pascolano all'aria aperta 365 giorni all'anno. Ancora oggi i pastori fanno transumanza verticale, per cui l’inverno rimangono a quota più bassa, fra 400 e 700 metri, e d'estate salgono oltre i 1.600. Ma negli anni molto è cambiato. A volte d’estate è troppo caldo anche in alto, e in alcuni casi non si trova il fieno, o l’erba si secca, e i pascoli non sono appetibili. Durante questo giugno 2022, un giugno torrido e precoce, l’erba dei pascoli era tutta rinsecchita, ma grazie al fresco delle notti in montagna e alla rugiada i campi si sono ripresi. “La natura ha capacità di recupero straordinaria”, afferma Cozzi. Si può resistere, anche se le temperature così alte sono diventate una costante. “Proprio in virtù di questo, negli ultimi anni veniva consentito il pascolo fino al 15 novembre”, racconta Cozzi. “Da quest'anno invece la gestione è passata nelle mani del Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise, che ha autorizzato il pascolo solo fino al 30 ottobre”. Il problema, quindi, con il clima che cambia, sembra prevalentemente istituzionale. Quindici giorni in più di pascolo in alta quota sembreranno ad alcuni una sciocchezza, ma due settimane piene in più vogliono dire risparmiare il pascolo nelle quote basse, consentendo quindi di avere un approvvigionamento invernale più duraturo.


Estate secca, inverno magro
Un problema simile ha Marzia Verona, che insieme al compagno si occupa di un allevamento di bovini e capre in Valle d’Aosta. Verona è laureata in scienze forestali, si è sempre occupata di allevamento e ha scritto anche diversi libri sull’argomento. La sua è una piccolissima azienda di montagna situata a 1.000 metri d’altezza sul livello del mare, con in tutto venticinque capre e una ventina di vacche di razza valdostana, da cui ricava fontina. Durante l’estate le vacche vengono mandate in alpeggio, affidandole ad altri allevatori, mentre Verona rimane a casa a occuparsi delle capre e della fienagione - approvigionandosi del fieno che sarà fondamentale durante l’inverno. Ma non sempre va tutto bene. “Quest’anno il grosso problema è stato la mancanza di precipitazioni nevose invernali, sia qua da noi sia a quote più alte” - racconta Verona. “E poi c’è la siccità, che ormai possiamo dire che dura da più di un anno: ce ne lamentavamo lo scorso autunno, ma non era niente in confronto a quello che c’è stato nei mesi a seguire”. In Valle d’Aosta esiste un sistema di impianti e irrigazioni, ma con meno acqua funziona poco. “Di conseguenza - spiega Verona - nella fienagione abbiamo riscontrato un 50% di fieno in meno al primo taglio, quello del mese di giugno, e un 30% in meno sul secondo taglio, quello di agosto. In montagna, chi è negli alpeggi ha avuto problemi ad abbeverare gli animali, perché c’era meno acqua nelle fontane e nei fiumi, mentre certi laghi di montagna si sono prosciugati quasi completamente”. Anche secondo lei, come Manuela Cozzi, si sarebbe potuto fare di più. “Si sarebbe potuti salire in alpeggio in anticipo”. In Valle d’Aosta, rispetto ad altre zone, come in Piemonte, i giorni d’alpeggio sono stati quelli di sempre. E sarebbero stati regolari, se anche la stagione fosse stata regolare. Ma la politica, tra tutti gli animali, è il più lento. “Le vacche hanno smesso di produrre latte prima - racconta Verona - perché l’erba era molto secca e molto dura”. In alcuni casi la produzione si è addirittura interrotta, mentre solitamente fino al mese di agosto o settembre si riesce a mungere bene.



L’animale più lento
Su alcune cose puoi agire, su altre non puoi agire. Nel caldo innaturale le zecche e i parassiti prosperano fino a dicembre. Su queste cose, se sei un piccolo allevatore, se hai pochi capi e pochi fondi, non hai voce in capitolo. Secondo Marzia Verona, però, “Dovrebbero essere prese delle decisioni più importanti a livello politico, regionale per lo meno”. Dovrebbero variare i giorni di pascolo in alpeggio, per esempio. E dovrebbe cambiare la regolamentazione del sistema idrico, che attualmente si divide tra le centrali idroelettriche e l’acqua per bestie e campi. Tutto è fatto secondo le regole, certo, ma le regole erano quelle valide nei secoli scorsi, quando il clima era diverso; quando, come dice Marzia Verona, “L’acqua per l’irrigazione c’era solo dal primo aprile al trenta settembre”. Adesso, se non piove, bisogna lo stesso irrigare; bisogna lo stesso bere; bisogna lo stesso bagnare. “Ci auguriamo che quest’anno nevichi tanto, altrimenti le scorte di acqua si esauriranno”. Anche i ghiacciai stanno arretrando. Quando Verona esce al pascolo, nel mese di maggio, e vede che nelle montagne già manca la neve, pensa: questa cosa non è naturale. Altrove, magari, in altre valli valdostane, la fortuna assume la forma di un bacino glaciale in alta quota, di un ghiacciaio che si ritira più lentamente. Ma qui, l’unica cosa che c’è è il razionamento dell’acqua. “E siamo tutti col naso all’insù ad aspettare la pioggia”.


I cicli stagionali

I campi sono secchi a giugno come ad agosto anche nelle Marche. La famiglia di Alessandra Spada, allevatrice, è arrivata dalla Sardegna alle Marche, a Sassocorvaro (PU) negli anni ‘70. Partirono dalla Sardegna, muovendosi dall’entroterra, viaggiando tra treni e traghetti merci, “come pirati verso l’isola del tesoro” - come dice la stessa Spada. L’azienda Cau e Spada si occupa di produrre pecorino da allora. “Abbiamo 1.800 capi di bestiame e lavoriamo sui 200.000 litri di latte all’anno, di vacca e di pecora”, racconta Spada. “Oggi noi abbiamo un allevamento allo stato brado, che significa che il gregge sta fuori e pascola per tutto il tempo che la stagione lo permette, rientrando in stalla per la mungitura e per proteggersi dai lupi. L'allevamento avviene su prati biologici fin dalla sua nascita”. Un allevatore non ha bisogno di fertilizzanti e concimi chimici, perché il gregge quando pascola al contempo concima. La caratteristica dell’allevamento allo stato brado è che produce soltanto se c’è erba, e l’erba dipende dal sole e dalla luna. A volte, negli ultimi anni, diventa talmente caldo che il gregge si prostra all’ombra delle querce e giace lì immobile. Non bruca e non si muove, non produce. Il latte nel 2021 è calato del 30%, nel 2022 del 40%. E la cosa curiosa è che l’acqua delle falde acquifere non è mai mancata: “Abbiamo dei pozzi ma non abbiamo dovuto utilizzarli”, racconta Spada; le bestie bevono, ma a mancare è l’acqua delle piogge che ingrassa i campi. Da giugno ad agosto non si è vista una goccia d’acqua.

I cicli umani
“L’unica cura possibile per noi è la pazienza”, afferma Spada. Sperare con il naso all’insù che arrivi la pioggia. A volte Spada pensa a quanto sarebbe più bello poter pascolare di notte: la temperatura è più fresca, l’erba è umida. Ma ci sono i lupi. E anche se non ci fossero, in ogni caso, dice, anche se le pecore rimanessero a mangiare sotto la luna, “non potremmo strutturare l’azienda per fare i turni di notte”. Perché anche quando i lenti cicli delle stagioni si sballano, i cicli animali rimangono regolari: dormiamo, mangiamo, soffriamo il caldo. Non possiamo cambiare abitudini. E con noi le pecore, e con le pecore le piante. Tutto esiste sotto il sole, ma sotto il sole brucia. 
(Autore: Tiziano Rossano Mainieri)

L’assenza delle istituzioni

Quando il sole picchia, è come se strappasse l'erba dalla terra. Al Caseificio Rosola di Zocca (MO), le mucche quando è troppo caldo devono rimanere nella stalla. A raccontarlo è Alessandro Marchi, allevatore, presidente della cooperativa che produce Parmigiano e altri latticini dal 1966.  “Attualmente siamo cinque soci allevatori con cinque 5 nuclei di allevamento che conferiscono il latte al caseificio”, racconta Marchi. Gli allevamenti sono medio-piccoli, per un totale di circa 200 animali da mungitura. Il Parmigiano si produce con il latte della sera e quello della mattina. Quello della sera viene scremato e messo in caldaia per essere aggiunto a quello della mattina; di conseguenza, il formaggio deve essere prodotto in mattinata, perché altrimenti viene inficiata la qualità del prodotto. Per produrre formaggio serve energia, come per tutto. Serve l’energia della caldaia ma anche delle stalle: “Tra luglio e agosto ci sono state delle temperature elevatissime - spiega Marchi - per cui gli animali sono dovuti restare nelle stalle”. C'era troppo sole, era troppo caldo, l’erba non cresceva. Il calore negli ultimi anni ha abbassato la produzione del 10%. E dentro le stalle, per non crepare di caldo, Marchi ha dovuto tenere le ventole accese: altra energia, altri costi. Per dar da mangiare alle vacche, hanno dovuto utilizzare i foraggi secchi che di solito usano d’estate: altra spesa, altri costi. A ognuna di queste voci si aggiunge un costo aggiuntivo. Così come per Marzia Verona, quando il fieno non c’è, bisogna comprare fieno. E il fieno costa tanto, perché la siccità colpisce pure la pianura. Foraggi che deve comprare anche Nicola Graccione, che dal 2009 alleva suini allo stato semibrado nell’azienda agricola Gennemari, in Sardegna. “Nell’arco di un anno i costi delle materie prime, cioè mais, grano, orzo e soia, sono praticamente raddoppiati”, racconta. 

Il valore (in euro) della Storia
Tutti hanno bisogno di soldi. Torniamo al Caseificio Rosola, in Emilia Romagna. Oggi ha bisogno di soldi per costruire una nuova stalla, diventata necessaria a causa delle temperature. Oggi allevano prevalentemente vacche di razza Bianca Modenese, frutto di un progetto di recupero che hanno iniziato nel 2005. Cento anni fa, negli anni ‘20 del secolo scorso, la Bianca Modenese era la razza italiana da latte più allevata tra le province di Modena e Reggio. Non ha solo un grande valore storico, ma produce anche un latte molto idoneo alla caseificazione. “La Bianca Modenese ha uno standard produttivo molto inferiore rispetto alle altre razze specializzate da latte, e produce mediamente ogni anno sui 40 quintali di latte”, illustra Marchi. Le altre razze, come la Frisona e la Bruna, producono intorno ai 90/100 quintali. 

L’aiuto della Regione
Ora Marchi sta pensando di costruire una nuova stalla, per abbattere i costi e aumentare la produzione: “Siamo in fase di progettazione di una nuova stalla, che dovrebbe sfruttare una ventilazione naturale attraverso le pendenze delle coperture, senza obbligarci a utilizzare delle ventole”. Queste nuove stalle sono progettate di modo da far entrare l'aria dal basso, dalle pareti laterali, con un “effetto camino”, che tira su l’aria, perché il tetto è molto inclinato, e il flusso d'aria che entra dal basso esce dall'alto attraverso una feritoia che percorre tutto il tetto, di modo da abbassare la temperatura interna della stalla. Il progetto di costruzione, in totale, si aggira intorno a un milione e seicentomila euro. “Abbiamo già le licenze edilizie per farlo”, spiega Marchi, ma per dare inizio al progetto bisogna aspettare l'uscita della graduatoria di un bando regionale. 


Se cambia il mondo, cambia il lavoro
Per come è il mondo adesso, forse non c’è più spazio per i piccoli allevamenti al di fuori del sostegno istituzionale. Molti dei lavori con la terra e gli animali che vediamo ancora oggi, sono nati alle condizioni di quaranta o cinquanta anni fa. Ma oggi quelle condizioni sono cambiate. Sono cambiate le condizioni che avevano spinto Reinhard Rohrwacher a scegliere di diventare apicoltore, nel 1981. “Sono quarantuno anni che faccio questo lavoro, ma oggi questo lavoro non si può più fare”, ci dice. Rohrwacher aveva iniziato per passione, aveva fatto il mezzadro e l’operaio, aveva girato l’Italia prima di trasferirsi sull’altopiano che dall’Umbria confina con il Lazio, a Castel Giorgio (TR), dove un apicoltore l’ha introdotto al lavoro: “C’erano un po’ di cassette vuote - racconta - lui mi ha detto: se ci sono degli sciami, prendili”. All’inizio era una passione ma era anche un lavoro, perché da quelle parti altro lavoro non c’era. Oggi tutto questo non sarebbe possibile. Racconta Rohrwacher: “Vent’anni fa facevo una media di 50 kg di miele per alveare, mentre adesso siamo arrivati a una media di 5 kg per alveare”. Sono dieci volte di meno. “Questo significa solo una cosa: che questa non è più un’attività con la quale ti puoi mantenere”. 

Perché muoiono i fiori
Rohrwacher ricorda la terra striata e rossa dell’altopiano. Era la terra perfetta per l’apicoltura. Le api si allevano portandole in posti dove c’è fioritura, generalmente dove è meno inquinato, dove c’è un ambiente più vispo e più sano. “E questo posto una volta era avvantaggiato, perché Castel Giorgio è un luogo abbastanza alto, senza monocolture perché vigne e uliveti stanno più in basso, mentre nel territorio avevamo prato, grano e foraggi”. Foraggi come il trifoglio rosso, che garantiva una vasta fioritura. "C'era una produzione di trifoglio rosso a livello europeo - racconta Rohrwacher - ma adesso ne mettono la decima parte”. Perché anche qui le vacche hanno iniziato a mangiare trinciato, mais e soia; meno fieno, meno erba fresca. Di conseguenza, essendo cambiate le coltivazioni, le fioriture sono sempre meno. Le fioriture diminuiscono anche a causa di pesticidi e fitofarmaci. E soprattutto: le fioriture diminuiscono a causa del clima. Le stagioni di fioritura durano sempre meno, a volte anche solo quindici giorni - quindici giorni in un anno intero - e le api non riescono nemmeno a stoccare una scorta di miele per l’inverno. “Una volta da queste parti si trovavano fioriture da aprile fino a fine giugno, e se pioveva addirittura in estate, con il girasole. Era un posto molto buono”, racconta Rohrwacher. L’apicoltore parla delle zone che vanno dall’alto Lazio, passando per la Tuscia, fino ad arrivare a parte della Toscana, parte della Maremma: “Tutta questa zona una volta produceva apicoltura stanziale. Io per esempio ho la maggior parte degli alveari stanziali, mentre a volte una parte li sposto. Li sposto verso l’acacia – e in quel caso verso la Garfagnana, Lucca, nel pistoiese. Per fare il castagno per esempio vado sul Monte Amiata, o sui Monti Cimini”. Una volta in questi territori la fioritura arrivava già prima del picco di maggio: già in aprile i campi erano pieni. “Adesso, con il cambiamento climatico, sono arrivati sia i picchi di 40 gradi, che qui non si erano mai visti, sia le gelate tardive”.

Il freddo e il caldo
Come per l’agricoltura, chi ha un rapporto diretto con le piante e i campi riconosce nelle gelate tardive il vero problema: “Vengono regolarmente sempre più tardi”, afferma Rohrwacher. “Quest’anno è arrivata il 5 aprile. Questo significa che tutto quello che inizia a uscire, le foglie dagli alberi, i fiori, tutto, qualsiasi cosa: muore. In questi casi le api non trovano niente almeno per un mese. E muoiono di fame. Quindi devi dare loro da mangiare in continuazione”. L’anno scorso, per un quintale di miele, le api hanno dovuto mangiare due quintali di zucchero. E poi c’è anche la siccità: perché i fiori sono organismi delicati, si seccano subito. “L’anno scorso è stato davvero terribile, dopo la gelata tardiva è arrivato un mese senza pioggia”, racconta l’apicoltore. “Quest’anno invece non c’è stata la gelata e i fiori sono usciti, ma da metà maggio fino a fine agosto la temperatura ha superato i 30 gradi ogni giorno”. E i fiori si sono bruciati.

Come muoiono le api
Una soluzione può essere il nomadismo: spostare le api verso i luoghi di fioritura. Ma anche il nomadismo ha dei limiti, perché bisogna essere bravi a indovinare le fioriture e perché ha dei costi elevati. Le api devi spostarle con il furgone, e il furgone funziona con la benzina. “Vent’anni fa c’era chi faceva due quintali di miele con il nomadismo - spiega Rohrwacher - mentre ora ci fanno 30 o 40 kg”. Anche gli aiuti istituzionali servono a poco. “Perché questo, più che un modo per salvare l’apicoltore, è un modo per mantenere le api in vita. Quindi in futuro l’unica possibilità per avere le api sarà questa: essere premiato per il solo fatto di averle”.


Paura e consapevolezza del futuro
Reinhard Rohrwacher, quando pensa al futuro, non è attento solo alle proprie api e al proprio agriturismo. Chi sa solo di api non sa niente di api, potrebbe dire qualcuno. “Il clima irregolare è il più grande problema per il futuro”, spiega. “Dicono che quando la temperatura media mondiale salirà sopra il grado e mezzo, il clima non sarà più prevedibile. Potranno venire grandinate a ciel sereno, nubifragi, qualsiasi cosa: ma tu non potrai più fare affidamento a niente”. Anche in questo caso, l’unica cosa possibile è alzare il naso all’insù, incrociare le dita e sperare. Ma sperare non significa semplicemente affidarsi alla sorte: significa sapere che prima o poi qualcosa capiterà, che capiterà di sicuro, significa solo sperare che non capiterà oggi. Racconta Marzia Verona, che ha studiato e studia anche la percezione dei cambiamenti climatici negli allevatori, che tuttavia questa consapevolezza non è frequente: “Il pensiero più diffuso è: Questa è stata un’annata grama, speriamo che la prossima vada meglio. Non c’è la percezione che potrà andare sempre peggio, che dobbiamo cambiare qualcosa”. Per molti è sempre una questione di fortuna e sfortuna. Ma perché sono proprio i lavoratori di questo settore a non rendersene conto? Secondo Verona è perché non possono risolverlo con le loro mani, “e allora fanno finta che non ci sia”. C’è molto fatalismo da parte di chi non vede o non vuole vedere le cause. E poi c’è l’altra faccia della medaglia, il complottismo, da parte di coloro che le cause le vedono ma, forse per una prospettiva più rassicurante, quasi espiatoria, le riducono non a un sistema ma alla strategia di un singolo: “C’è gente che dice - racconta Verona - il clima è manovrato per farci fallire, per far fallire noi piccoli”. 



Marzia Verona vede nella mancanza di consapevolezza della crisi climatica un grandissimo problema, perché, dice, “Se non si riconoscono le cause, non è possibile avere voce in campo politico”. Dopo il 2030, portando le vacche agli altissimi alpeggi, sempre più poveri di ghiacciai, o riportandole verso le nuovissime stalle, guardando all’insù penseremo: “Mannaggia, poteva piovere un poco di più; poteva fare un poco più sole”. E allora, come adesso, come è sempre stato, la gamma di cose che sconvolgeranno il mondo si dividerà in due categorie: le cose che puoi riuscire a cambiare, e le cose che non puoi riuscire a cambiare. Anche domani, quando ci sentiremo impotenti, daremo la colpa alla sfortuna. Ma quando verranno i nubifragi, le siccità o le carestie, non potremmo più parlare di disgrazie. E dovremo abituarci a chiamare la sfortuna con un altro nome: tragica conseguenza delle nostre azioni passate.

Parliamo di allevamento nel secondo capitolo della nostra serie di articoli sulle conseguenze degli eventi meteo estremi sulle attività umane.

Leggi il capitolo precedente:

Giovanni Peparello

Con il contributo di Claudia Balbi, Fabio Ferrante, Margherita Venturi e Martina Nasso