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D'Angelis: "Ritorno a Italia Sicura? Il piano c'è e i fondi pure"

Se ne è tornato a parlare sui giornali e anche Uncem ha richiamato l'esperienza nata nel 2014 come chiave per mettere in sicurezza il fragile territorio italiano. Di che si tratta?

Di fronte a quanto accaduto in Emilia-Romagna, il tema della lotta al dissesto idrogeologico è tornato prepotentemente in primo piano e con esso un'esperienza che nel passato recente aveva tentato di porre un freno al fenomeno: Italia Sicura. 

Il tema è tornato di attualità sui giornali e nel dibattito tanto che Uncem nel suo dossier sul dissesto e manutenzione “Fragile come una montagna. 15 proposte e necessità per mettere in sicurezza territori e comunità” pubblicato lunedì 22 maggio, al punto 5 afferma che per combattere il dissesto idrogeologico servirebbe “Riattivare Italia Sicura”. “Noi ci poniamo una domanda: chi fa coordinamento? Chi sprona le realtà dove le cose non vengono fatte? - Spiega Marco Bussone, presidente dell'Unione Nazionale dei comuni, delle comunità ed enti montani – Tutti sappiamo che i comuni come le Regioni hanno risorse e l'opportunità di fare interventi urgenti, negli anni i tempi si sono allungati e le cose non sono state fatte. A nostro giudizio serve un coordinamento centrale che aiuti anche a spendere le risorse e sblocchi le situazioni che si son create. Per sbloccarli probabilmente serve una struttura. Io sono sempre stato contrario alle strutture commissariali: dove c'è un commissario non c'è più l'istituzione. Io dico che una struttura centrale incardinata alla presidenza del Consiglio, come era Italia Sicura, che agevoli i percorsi e le strategie è necessaria. Passa troppo tempo da quando vengono stanziati i soldi a quando vengono fatti gli interventi”. “Non lo dico per rivangare il passato, i tempi politici sono molto diversi rispetto ad allora. Quella cabina di regia aveva dato dei risultati, Erasmo D'Angelis aveva fatto un lavoro importante, oggi bisogna porsi la domanda se tutto quello che abbiamo come capacità di iniziativa sia adeguato alle sfide, alle risorse e al momento in cui viviamo” conclude Bussone.

Abbiamo chiesto a Erasmo D'Angelis, attuale Sottosegretario di Stato al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ed ex coordinatore dell'esperienza Italia Sicura nata nel 2014 di spiegarci le sue caratteristiche e raccontarci la sua storia.

"La struttura di missione Italia Sicura è nata con il governo Renzi ed è stata confermata da quello Gentiloni. E nata per strutturare una task force tecnica in grado di iniziare ad operare in maniera permanente e per durare nel tempo. Era l'idea di Renzo Piano, che parla "del rammendo dell'Italia fragile". Visto che siamo un Paese fortemente a rischio idrogeologico, tra i più a rischio nel mondo, perchè abbiamo una geologia molto giovane, 2/3 del territorio costituiti da montagne e colline molto franose, con terreni sabbiosi e argillosi. Abbiamo 628 mila frane delle 750 mila in Europa censite dall'Ispra con 2400 frane controllate dai centri funzionali di protezione civile. In più c'è stata un urbanizzazione folle in questo paese che in 70 anni ha più che triplicato le cubature, per cui siamo passati dal 2,9% del costruito in tutta Italia del 1950, all'8,3% di oggi, sempre secondo Ispra, con un consumo di suolo che continua. Ma soprattutto si tratta di un'espansione su aree franose, alluvionali, vecchie paludi, senza sistemi di protezione e in barba alle leggi, graziata da 4 condoni. Quindi siamo un Paese che ha 8 milioni e 100 mila italiani, ci dice sempre Ispra, a rischio frane e alluvioni. Di fronte a questo cumulo di rischi che ci fanno pagare più o meno 4 miliardi all'anno dal Dopoguerra per riparare i danni da frane ed alluvioni e dall'inizio del 2000 quasi 5 miliardi, e di fronte ai morti, immaginammo questa struttura di missione.

Come era organizzata la struttura di missione?
Era composta da 20 tecnici di primo livello della pubblica amministrazione che arrivarono da protezione civile, da alcuni ministeri, da Invitalia e dalle strutture dello stato. Quindi economisti, ingegneri, esperti di rischi, architetti, un mondo formato per affrontare la missione. Abbiamo creato questa struttura incardinata a Palazzo Chigi perché questa impresa non si poteva fare da un unico ministero, perché le competenze sono divise su tutti i ministeri e sarebbe stato complicato, mentre Palazzo Chigi ti dà l'autorevolezza di coordinare tutto intero lo stato e poi di intervenire per risolvere i problemi in tempi brevi. Abbiamo coordinato 10 mila uffici tra uffici centrali a Roma dei vari ministeri, enti, soggetti, assessorati, uffici regionali, insomma tutti coloro che avevano a che fare con il tema del dissesto idrogeologico. Abbiamo nominato poi, grazie allo Sblocca Italia del 2014, tutti i presidenti di Regione commissari di governo per il contrasto al dissesto con strutture commissariali ad hoc. Quindi c'era una struttura centrale connessa con 20 strutture tecniche regionali.

Quanti fondi avevate a disposizione?
Siamo partiti con una ricognizione dei fabbisogni e abbiamo realizzato un piano di opere e interventi, circa 11 mila in tutto, che avrebbero avuto un costo intorno ai 30 miliardi di euro. Sono opere che dovevano essere realizzare in tutte le regioni italiane, e si tratta di casse di espansione, strumenti per il contenimento delle frane, risagomatura di canali, pulitura dei corsi d'acqua, stombatura dei tratti più rischiosi di alcuni dei 20 mila fiumi e torrenti intubati sotto le città. Quindi abbiamo immaginato e predisposto un piano decennale con investimenti di 3 miliardi di euro all'anno. Per il piano finanziario avevamo ritagliato i primi 8 miliardi e 400 milioni per far fronte alle opere più urgenti. 

Siete riusciti anche ad intervenire sui tempi delle opere pubbliche?
Abbiamo attivato riforme per far ripartire i cantieri bloccati dopo le gare. Grazie allo Sblocca Italia in nome della incolumità pubblica e della salvaguardia delle persone, queste opere sono state dichiarate non-stop. Ovvero in caso di gara, anche in presenza di un ricorso il cantiere si apriva lo stesso. In più abbiamo dato ai presidenti potere di deroga, tagliando i tempi e la burocrazia. Inoltre abbiamo portato la massima trasparenza sulle opere in fase di realizzazione: avevamo sul nostro portale www.italiasicura.it era un portale georeferenziato dove si potevano trovare i cantieri nella propria Regione e si potevano seguire gli avanzamenti dei lavori o fare domande sulle opere via mail.

Quali sono state le prime opere realizzate?
Diciamo tre grandi opere che attualmente ancora sono le più grandi opere europee di difesa delle città dalle alluvioni. Nel 2015 abbiamo aperto i cantieri di Genova per il Bisagno e il Fereggiano investendo complessivamente su 8 grandi opere quasi 500 milioni. Per cantieri che sono proseguiti anche nei cambi di governo locale: sia le giunte di centro-sinistra che quelle di centro-destra non hanno perso un minuto ed hanno continuato a lavorare e adesso stanno per concludere queste grandi opere. Poi abbiamo aperto i lavori sul Seveso a Milano per la costruzione di 5 casse di espansione per 120 milioni a cui hanno partecipato la Regione e i Comuni, 3 casse sono già concluse con tanti problemi dovuti a proteste. Altri 120 milioni sono stati investiti lungo l'Arno a monte di Firenze con 4 casse si espansione di cui 3 sono concluse. Queste le opere maggiori che sommate ad altre in altre regioni ci hanno portato ad investire in totale 1 miliardo e 400 milioni per circa 1400 cantieri. Con la spesa più importante per Genova, Milano e Firenze pari a quasi 750 milioni.

Che ruolo aveva la protezione civile nella task force?
Un ruolo di riferimento eccezionale. Noi quel piano lo abbiamo fatto regione per regione insieme a tutte le protezioni civili regionali e alle autorità di bacino e a Regioni e Comuni. 

In Emilia-Romagna cosa si era deciso di realizzare? 
L'Emilia-Romagna è una delle regioni che ha lavorato di più, più in Emilia e meno in Romagna dove le opere sono ancora in progettazione, comportando il fatto che l'Emilia, come si è visto, è molto più difesa rispetto alla Romagna. Sono state attivate 14 casse di espansione in tutta la Regione e 9 sono ancora in corso di progettazione in attesa di finanziamenti e alcune di quest'ultime che mancano sono proprio in Romagna.

Lei, da sottosegretario di Stato al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, si è fatto un'idea di cosa è successo e quali sono le cause dell'alluvione in Emilia-Romagna?
Questo evento è un'evento spartiacque, nel senso che era dal 1966 (Alluvione di Firenze e del Centro nord) che non avevamo una devastazione così estesa per area geografica e due eventi estremi che hanno colpito la stessa area nel giro di 15 giorni, qualcosa di mai accaduto nella storia dei monitoraggi. Quindi come tipologia di evento è il più grave da allora. Il tutto è avvenuto poi a ridosso di un terzo evento climatico estremo che è stata la siccità, durata per la prima volta quasi due anni. Quindi questa alluvione ha davvero segnato un prima e un dopo tra l'idea che c'era un clima che stava cambiando e la certezza che oggi siamo di fronte ad eventi climatici spaventosi. Noi abbiamo avuto fino a fine Novecento 5 o 6 eventi estremi molto gravi ogni 10 anni, dagli inizi del 2000 quei 5 o 6 eventi estremi ogni 10 anni sono diventati circa 100 all'anno, di portata minore, ma sempre con caratteristiche estreme (cicloni, alluvioni, frane etc.)

Se dovesse dire una cosa che è mancata, cosa direbbe?
Quello che è mancato è ciò che manca in tutta Italia. Dalla Sicilia al Piemonte quello che manca è la capacità di intercettare il prima possibile questi fenomeni perchè la meteorologia ancora non riesce a farlo. Poi abbiamo difese risalenti ai tempi di Cavour, come si è visto, arginature vecchie, casse di espansione che sono poche, quindi le nostre difese sono veramente poche. In più quell'urbanizzazione in Romagna ha fatto sparire tante scoline, tanti fossati che trasportavano l'acqua e i campi hanno perso la capacità di mantenere l'acqua, quindi ci sono problematiche enormi che riguardano sia il consumo di suolo, sia le infrastrutture di difesa. Quindi è vero che ci sono le nutrie e quindi migliaia di arginature hanno problemi per le tane, però basta metterci le reti. Su tutta questa materia qui bisogna assolutamente fare dei passi da gigante. 

Come e perché si è conclusa l'esperienza di Italia Sicura?
In una notte il Consiglio dei Ministri ha deciso di chiudere la struttura di missione. Ma la cosa più grave è che ha distrutto i server, portato via i computer e rimandato a casa personale formato della Pubblica Amministrazione. Ora ogni governo ha il diritto di cancellare il precedente però lo puoi fare bene, ma non sostituendo l'esistente con il nulla. Tecnicamente con il Conte 1 nacque il Proteggi Italia, un fallimento, e poi Strategia Italia, altro fallimento. E il fatto che non è più stato speso nulla e che tutto si è formato lo dimostrano gli 8,4 miliardi di euro che abbiamo ritagliato noi e che il governo Draghi ha ritrovato e inserito nella prima stesura del Pnrr alla voce “contrasto al dissesto idrogeologico”. Un totale che poi è stato investito per la protezione civile e che oggi è arrivato a 2,9 miliardi ma che potrebbe benissimo essere un budget di partenza da poter utilizzare. A dimostrazione che non c'è né un problema di risorse né di capacità tecnica italiana in questo settore. 

I presupposti per portare avanti il vostro progetto, come auspicato da Uncem, ci sarebbero?
Noi abbiamo conservato e stampato il piano, è diventato un librone di mille pagine e si trova anche a Palazzo Chigi, si potrebbe andare avanti: ci sono i piani, andrebbero aggiornati in alcune regioni però sostanzialmente il fabbisogno è quello lì. Per cui un piano c'è, i fondi ci sono. I partiti facciano una tregua perché possono litigare su tutto ma non su questo. Insieme creino una struttura che possa sopravvivere ai governi. 

Claudia Balbi