(Fonte foto: Ingv)

Lo scioglimento del permafrost potrebbe peggiorare la crisi climatica

La CO2 emessa dal permafrost antartico non era mai stata considerata nelle stime sulla crisi climatica. Ma oggi una ricerca Ingv cambia tutto: ne abbiamo parlato con uno degli autori, Fabio Florindo

L’elicottero è partito dalla base della Nuova Zelanda in Antartide e dopo un’ora di volo è arrivato nella Taylor Dry Valley, una di quelle zone talmente desertiche da essere prive di ghiaccio: tutto intorno c’è solo il deserto di permafrost - uno strato perennemente congelato di terra secca. Schiacciate nella morsa del freddo e dei venti catabatici, le Dry Valleys sono uno dei posti più inospitali della Terra. L’elicottero atterra e dai portelloni scende un gruppo di persone infreddolite: sono gli scienziati dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. “Questo sembra un luogo marziano”, ci racconterà poi Fabio Florindo, ricercatore dell’Ingv, uno degli autori dello studio di cui stiamo parlando - uno studio che avrà un impatto mondiale sulla percezione della crisi climatica. È qui nelle Dry Valleys che la Nasa ha testato i suoi rover per le missioni su Marte.  Ed è qui che gli scienziati hanno dovuto piazzare le sonde, sperando che il gelo non le distruggesse. Loro stessi sono dovuti rimanere a dormire in tenda. Sembra un lavoro disumano, ma portarlo a termine è stato fondamentale. Perché, anche se a occhio nudo non si vede, anche se sembra difficile immaginarlo, lo strato perenne del permafrost ha iniziato a sciogliersi. E sciogliendosi sta liberando nell’atmosfera tonnellate su tonnellate di gas serra. Con conseguenze catastrofiche.

Il circolo vizioso della CO2 scongelata
Ogni anno l’International Panel on Climate Change (Ipcc) stila un rapporto sulle scoperte più rilevanti nell’ambito del cambiamento climatico. Il rapporto non produce niente di nuovo ma si limita a raccogliere informazioni. Tra queste informazioni, sono disponibili anche quelle sulle emissioni mondiali di CO2. In base a queste emissioni e ad altri parametri, ogni anno la stessa Ipcc fa una stima delle prospettive del cambiamento climatico. Siccome le stime possono variare, queste prospettive vengono presentate secondo vari scenari, che vanno dal peggiore al migliore. Ogni anno che passa gli scenari migliori sembrano un po’ meno belli e gli scenari peggiori un po’ più brutti. Tra le varie emissioni mondiali di CO2 non vengono considerate solo quelle antropogeniche, ma anche quelle generate dallo scioglimento del permafrost del circolo polare artico, cioè quello che si estende dalla Siberia al Canada. Il permafrost, infatti, immagazzina gas serra e sciogliendosi lo libera in atmosfera. Tuttavia, l’Ipcc raccoglie solo le stime delle emissioni delle regioni artiche, perché nelle regioni antartiche questo fenomeno non era ancora stato valutato a sufficienza. Partendo da questo presupposto, i ricercatori dell’Ingv hanno avuto l’idea di provare a studiare per la prima volta il degassamento causato dalla degradazione del permafrost antartico. E quello che hanno scoperto è molto preoccupante: anche il permafrost antartico si sta sciogliendo, e sciogliendosi rilascia nell’atmosfera una grande quantità di CO2. Nel luogo dove è stato condotto lo studio “Antarctic permafrost degassing in Taylor Valley by extensive soil gas investigation”, pubblicato su Science Of Total Environment (Stoten), si stima che su un’area di 21.6 km2 vengano liberate 15 tonnellate di CO2 al giorno. E questa è soltanto una visione parziale. Se le quantità di CO2 venissero confermate negli studi successivi, questa scoperta ci porterebbe a dover rivedere le stime del riscaldamento climatico mondiale, spostando più in là l’asticella dello scenario peggiore. Oltretutto, l’emissione di CO2 potrebbe portare a un ulteriore aumento di temperatura, che porterebbe a sua volta a un maggiore scioglimento del permafrost, che porterebbe di nuovo ad altre emissioni di CO2 - in un circolo vizioso insuperabile. Ne abbiamo parlato con Fabio Florindo, uno degli autori della ricerca, tornato in Italia mentre molti dei suoi colleghi sono rimasti in Antartide per proseguire le analisi.

La prima di moltissime valli
“Quando abbiamo cominciato questo studio - racconta Florindo, dirigente di ricerca dell’Ingv - non sapevamo bene cosa avremmo trovato. All’inizio c’erano poche evidenze che potessimo trovare qualcosa in termini di emissioni di CO2 e di metano. In molti erano sicuri che sarebbe stato un buco nell'acqua” - però alla fine i risultati sono arrivati. “All’inizio è stata proprio una sfida - spiega il ricercatore - perché non sapevamo nemmeno se le sonde a batteria avrebbero retto le temperature a -40°C e a -50°C. Poi però tre su cinque il primo anno hanno resistito, producendo dati in continuo. Questa è stata la prima cosa eccezionale, la prima cosa che non aveva mai fatto nessuno”. Ed è stata anche una cosa importantissima, perché i valori che quelle sonde hanno registrato non erano mai stati considerati nelle stime dell’Ipcc. Lo studio nella Taylor Valley per ora è solo una parte di un’idea più grande e ambiziosa, come racconta Florindo: “Questo progetto, chiamato Seneca (SourcE and impact of greeNhousE gasses in AntarctiCA), è stato ideato e coordinato da Livio Ruggiero, un ricercatore precario, principal investigator della ricerca. Ora il nostro obiettivo rimane quello di continuare analizzare altre valli”, racconta Florindo.

La soglia da non superare
Le prime conseguenze di questo studio potrebbero essere politiche. E secondo Florindo è importantissimo farle valere su un piano internazionale. “Anche per questo abbiamo scelto di pubblicare questa ricerca su Stoten - spiega Florindo - perché sapevamo che sarebbe stata letta da determinati esperti che possono fornire supporto agli studi”. I ricercatori si aspettano collaborazioni, così come ora alcuni di loro collaborano con la stessa Ipcc. “Per quanto riguarda le conseguenze planetarie, invece, la situazione è semplicemente preoccupante”, afferma Florindo. “Dobbiamo far capire anche agli scettici che la cosa sconvolgente di questi cambiamenti non è tanto il cambiamento in sé ma la velocità con cui avviene. Questo tipo di variazioni normalmente ha bisogno di milioni di anni per verificarsi, mentre tutto questo sta avvenendo in un secolo. Di conseguenza andrebbero rivisti i modelli climatici, perché la situazione potrebbe essere peggiore di come la immaginiamo”. Nel frattempo le risposte definitive dello studio dell’Ingv dovrebbero arrivare già nel corso del 2023. In alcuni casi potrebbero essere necessarie ulteriori analisi aggiuntive, ma la paura dei ricercatori è concreta: il mondo sta entrando in un circolo vizioso. Ognuna delle variabili climatiche citate dall’Ipcc, infatti, ha tra i vari parametri anche una soglia che non va superata, un punto di non ritorno (o tipping point) oltre il quale l’inerzia del sistema non può essere fermata. Alcune di queste soglie le abbiamo già superate, e per tornare alla “normalità” serviranno secoli interi. Per questo motivo, non sappiamo ancora cosa accadrà quando supereremo anche questa.

Giovanni Peparello